VISCO: il lager che si vuol dimenticare

Pubblichiamo una relazione del prof. Ferruccio Tassin sulla storia del campo di concentramento fascista di Visco

Da fratelli in una Europa più grande a nemici per il culto della nazione.
Relazione sul campo di concentramento di Visco.

Qualche mese fa, una troupe televisiva si aggirava per il piccolo paese di Visco.

Cercava dove fosse esistito un campo di internamento. Non molti gli interpellati, ma una costante: facce meravigliate, mai sentito nulla del genere. Si trattava di persone relativamente giovani.

il campo di Visco

Andiamo indietro negli anni: la gran parte della popolazione conosceva qualcosa, confusamente; solo qualcuno aveva delle nozioni più distinte.

Ancora più indietro: anno 1952; a Visco, in località Borgo Piave, nella grande caserma “Luigi Sbaiz”, si inaugurano i restauri della chiesa di San Martino, eretta nel 1943 per il servizio religioso agli internati.

La stampa parla di “vecchia chiesa di campagna già caduta in abbandono…restituita al culto”; “nuova e suggestiva chiesa che il 59° fanteria ha fatto erigere a Visco”; “…chiesetta restaurata…riedificata”; “nuova chiesa eretta sui ruderi d’un vecchio tempio di campagna” 1).

Nove anni dalla sua costruzione! (f. 1)

Spostiamoci nel tempo e nello spazio: 1998. A chi scrive arriva una telefonata da Osoppo.

È un giovane che telefona, Moreno Venchiarutti. Il nome richiama alla mente bei versi in friulano che aveva scritto al tempo del terremoto 2).

Mi chiede del campo di Visco: sua madre aveva recuperato il diritto alla memoria, quando le avevano riferito che c’era chi aveva scritto sul campo di Visco.

Slavenka Ujdur si chiama sua madre, di Gradac in Dalmazia, dopo la guerra aveva sposato un Venchiarutti di Osoppo.

Raccontava che a sedici anni era stata internata nella sua terra, a diciassette, trasferita nel campo di Visco (f. 2).

Le ripetevano che era impossibile: non c’erano stati campi di concentramento in Italia, meno che meno a Visco, semmai notoriamente titolare di una grande caserma…una di quelle che non mancavano in queste terre che oggi tanti chiamano, riassuntivamente, Nordest.

Lei, da quel momento, si appellava alla pagina scritta, e si riprendeva il diritto alla memoria 3).

Nella Jugoslavia, invece, si sapeva del campo in questo piccolo paese; una volta all’anno arrivava una corona sulla lapide dei 25 morti nel campo, ma senza alcun contatto ufficiale; anche dopo la loro riesumazione e il trasferimento a Gonars.

Con la dissoluzione della Jugoslavia, la corona non arrivò più.

All’interno della lotta politica nel dopoguerra, intessuta di polemiche spicciole, innestate spesso su problemi grandi e drammatici, i campi di internamento non erano stati usati nelle accuse reciproche scagliate senza esclusione di colpi.

Più in alto, la guerra fredda, così aveva cancellato comportamenti; aveva ibernato questioni come queste, fatte di soprusi, efferatezze, che riaffioravano in singole voci di ex combattenti, ma rare e flebili.

In queste terre, al di qua del vecchio confine, tali mancanze erano storicamente più gravi; suonavano offesa a genti che si erano trovate insieme: friulani, sloveni, austriaci, italiani, gradesi, bisiachi, avevano convissuto, chi da uno, chi da quasi cinque secoli insieme, sostanzialmente in pace fino a metà Ottocento, poi con qualche problema in più.

Internati; la parola era già risuonata per friulani, bisiachi, gradesi e sloveni, subito dopo il 1915, con migliaia di persone spedite in varie parti d’Italia, non in campi, ma internate nella sofferenza, proprio dai “fratelli” italiani.

La violenza nasce qui.

Ma dopo la grande guerra, per i friulani e italiani delle “Nuove Province”, mai risarciti, neppure moralmente, delle loro umiliazioni, la situazione si stabilizzò naturalmente; per le altre etnie, la violenza continuò, più immediata negli anni vicini; con forme subdole, però ugualmente pressanti e tendenti alla assimilazione, dopo 4).

Prima ancora che nel fascismo, naturale continuatore, le origini di questi mali si hanno nel nazionalismo, che lungimiranti uomini politici delle nostre terre ritenevano il cancro dello Stato 5).

Paolo Alatri, nel tratteggiare la figura del socialista Giovanni Cosattini (1878 – 1954), ricorda un suo discorso del 1920 che denuncia la politica di “persecuzioni e di terrori” nei territori occupati e sottolinea come “nei paesi slavi la legge, la libertà, il diritto non esiste; vi è l’arbitrio di un comandante del presidio, del commissario del comune, del brigadiere, dell’ultimo dei carabinieri…”.

Il poeta Celso Macor ha ben spiegato questo meccanismo nazionalistico verso i Friulani; Angelo Ara lo ha illustrato nei confronti di sloveni e croati 6).

Qui, la difesa della lingua era considerata una colpa; più ancora la difesa del popolo.

Due vescovi dovettero andarsene per questo: a Trieste il friulano Luigi Fogar; a Gorizia, lo sloveno Francesco Borgia Sedej 7).

La resistenza nelle nuove terre inizia anche con l’arte. Tanto per citare, Tone Kralj a Pevma (f. 3), presso Gorizia, ritrae le sembianze del dittatore in Lucifero trafitto dalla lancia di San Michele (siamo nel 1934) 8).

A Gradno (Collio sloveno, anno 1942), nella chiesa di San Giorgio, Lojze Spacal accentua i caratteri del neoillirismo nelle sue tempere, parlando di altra cultura; e lì, nelle 14 stazioni della Via Crucis, Zoran Music (f. 3 bis) dipinge costantemente un cielo senza tempo, quasi a dire che per gli Sloveni la vita è sospesa.

Eppure nelle nostre terre della Contea di Gorizia e Gradisca c’era una storia millenaria a parlare di intersezioni, scambi: i nomi Gorizia, Gradisca.

La stessa piccola Visco, con alcuni microtoponimi: hrast quercia, friulanizzato in Crastia; mlaka, pantano, nel Settecento ribattezzato, a orecchio, Milleacque per un fossato lutulento …

Il parroco decano di Visco, don Mesrob Justulin, ritornato (1919) da cinque anni di esilio, dove lo aveva spinto la feroce vendetta italiana (vendetta nazionalistica per la fedeltà alla sua patria, e sociale per la sua opera di riscatto della povera gente), aveva capito come si stavano mettendo le cose e osservò : “…La tendenza di purgare la lingua e di cassare tutto ciò che non è puro prodotto nazionale, farà sparire anche questi segni e documenti storici…”; e ancora “…Il nazionalismo spinto – di essere rampolli dei leggendari Romolo e Remo – (non so del resto che gloria sia) è una ridicolaggine…” 9).

Ma si intessevano furibonde discussioni su queste origini, che andavano depurate.

“ Arbe (Rab) in Dalmazia…Gonars e Monigo nel Friuli, Renicci, Chiesa Nuova e Visco in Toscana…”: non si riporta questo, per rivedere le bucce a chi l’ha scritto, e dire che Monigo è in provincia di Treviso; Chiesa Nuova, di Padova; Visco, di Udine…, ma per far capire che anche in due studiosi sloveni (uno in Italia, l’altro un Slovenia), c’è della confusione, pur scrivendo nel 1998…

La acribiosa attenzione di qualche storico potrà fissare cronologicamente la successione degli studi sui campi nelle nostre terre, ma almeno la sinopia di tutto l’affresco è ormai chiara.

Studi come quelli di Spartaco Capogreco, Davide Rodogno, o di Tone Ferenc e Boris Jezernik, lumeggiano a sufficienza l’entità del fenomeno, sotto il profilo ideologico e quantitativo.

Altri studi (la frequente non conoscenza delle lingue slave blocca la profondità delle indagini in Italia), potranno rimpolpare il tessuto connettivo.

Semmai, il problema è quello della diffusione di questa conoscenza che genera ancora sospetti verso chi cerca di incontrarla.

Epiteti, anche di segno opposto, sono piovuti persino su uno studioso marginale in questo campo, come chi scrive.

I libri di storia tacciono; fondamentale, per questo, è che il silenzio non si prolunghi negli insegnanti; ecco l’importanza dei convegni. Sicché anche studi più particolareggiati riguardo una località, come questo, possono contribuire a conoscere e a superare.

“Sono sicuro, che parlare di soggetti “tabù” di questa guerra – mi ha scritto un ex internato a Gonars, il pittore Marijan Tršar – , che chiarire tutte ingiustizie subite in questo tempo pernicioso sarebbe veramente utile per migliorare le relazioni tra nostri due popoli.

Conoscere meglio suo vicino, cancellare i mille pregiudizi reciproci fra ambedue, riconoscere difetti e virtù è sul mio parere l’unica via per ottenere rispetto mutuo, per poter vivere insieme non soltanto in una vicinanza sopportabile, ma in una vera benevolenza umana. E proprio questo deve diventare il proggetto futuro di nostre due nazioni, destinate di vivere insieme – in futura Europa unita” (f. 4).

Così questo intellettuale sloveno esorcizza anche il termine “tolleranza”, troppo spesso evocato, per sostituirlo concettualmente con quello umanamente più pregnante e giusto di “rispetto”.

Importante anche la sua osservazione sul pensiero della sottovalutazione rispetto al popolo sloveno: “Non ho mai avuto l’impressione di una volontà ufficiale e programmata di sterminio in Gonars, ma ho avito sempre una impressione penibile [nel senso di “penosa”] di disdegno, di ogni specie sottovalutazioni, esistenti non solo come questi tra vincitori e vinti, ma piuttosto fra una grande nazione italiana verso una piccola slovena, quasi minima nel Europa…” 10).

Tornando alle nostre terre, in cui friulani, italiani e sloveni si trovavano a contatto quotidiano, basti accennare alla scuola, e alla chiesa, due istituzioni capillarmente diffuse sul territorio (la prima dal1840 in poi; la seconda, da sempre).

Maestri e maestre sloveni, sacerdoti sloveni erano attivi ovunque.

Il primo maestro di scuola popolare a Visco era uno sloveno di Pogora, Giovanni Sfiligoi, che poi, dopo il 1848, fu anche il primo podestà costituzionale. Sloveno era il parroco decano dopo il 1848, Pietro Goriup, che veniva da Aiello, originario di Canale, e che nei registri parrocchiali distribuiva a manciate pipe sulle consonanti dei nomi locali 11)

Se vogliamo arrivare fin qua, e permettere una citazione personale, sloveno è stato uno straordinario professore di italiano che ha insegnato a scrivere e a parlare al sottoscritto allievo alle medie nel Seminario arcivescovile di Gorizia, l’ora canonico prof. Fioretto Žbogar.

Ci sono due tesi sul problema dei rapporti tra Friuli e paesi vicini: quella che vede “…Gorizia, insieme col suo cerchio di territorio…per un tempo interminabile il punto focale di un’area di incomprensione…” (Quirino Principe), e quella che considera l’incontro tra questi popoli all’interno della realtà istituzionale dell’Impero Austroungarico; forse la realtà sta in mezzo, con una tendenza verso la prima, anche se non in ogni periodo storico

Nella introduzione alla già citata, importante opera a più voci dedicata alle minoranze nella Mitteleuropa, Vittorio Peri ha considerato come il concetto di minoranza, per queste terre concepito soltanto dopo il 1918, abbia portato con sé “… come inevitabile conseguenza, il disegno di sradicare sistematicamente dal territorio nazionale e dalla mentalità dei cittadini tutto ciò che non appariva immediatamente italiano ed unitario, a partire dalla lingua materna…”.

Francè Brenk , nel suo saggio – testimonianza sul ricordo della detenzione da lui subita nel campo per internati civili jugoslavi di Visco, si pone una domanda amara, angosciosa, forse anche venata di risentita malinconia su come sia possibile che la gente del paese non sappia o non voglia sapere dell’esistenza di un simile monumento all’ingiustizia e alla prevaricazione 12).

La gente sapeva, ma forse non tutto, non certamente il perché, filtrato attraverso la propaganda in tutti i suoi canali e in parte deviata da una informazione a senso unico.

C’è chi ha operato commistioni terribili sulla conoscenza, ancora oggi, confondendo periodi, popoli, cause…Qualcuno sentì parlare di “ribelli” (del resto così li definivano le circolari lette alla gente, per impedire eventuali collegamenti con gli internati).

Non pochi ancora ricordano l’esodo di questi internati dopo l’8 settembre, e ne parlano con quella “pietas” che accomuna gli uomini nel dolore.

Eco di questo sentire si avverte nelle cronache parrocchiali di Versa, della Bruma (Gradisca), di Ronchi dei Legionari. Racconto diretto all’Autore quello dell’allora parroco di Aurisina don Mario Virgulin.

Certo è che in un’epoca in cui le contrapposizioni erano nette, e le collocazioni internazionali precise, il Consiglio Comunale di un piccolo paese come Visco decise di collocare una lapide sulla sepoltura degli internati jugoslavi e di farvi incidere tutti i nomi dei morti, quando qui amministravano i “bianchi” e si riteneva che tutti di là del confine fossero “rossi” (si era negli anni Cinquanta).

Sulla lapide è incisa una corona di spine, segno non soltanto di duolo, ma di percezione dell’ingiustizia (f. 5).

È un gesto che non vale certamente una riparazione, ma che presuppone una ben precoce, istintiva, magari ingenua sensibilità nei confronti di chi aveva finito la sua giornata lontano dalla Patria, o in una “patria” cucita addosso da trattati internazionali o, peggio, da occupazioni militari.

Brenk, allora, aveva ragione a scrivere così, ma conoscendo una storia che qui a lungo è stata rimossa o negata, si sarebbe giunti alla scoperta di comuni valori spirituali, culturali, che ora, non senza fatica riprendono a farsi strada.

Anche se numericamente assai meno rilevante e con modalità di certo meno crudeli, si è visto che anche la “liberazione” delle terre “irredente” nella Contea di Gorizia aveva avuto simili modalità, mai ufficialmente riconosciute.

L’ordine di costruire il campo di Visco arrivò nel dicembre ’42; avrebbe dovuto essere in grado di ospitare 10.000 persone; il comando d’armata concesse all’intendenza pochi giorni, data l’urgenza.

La località era stata scelta dal gen. Umberto Giglio, Intendente del Comando Superiore delle Forze Armate Slovenia – Dalmazia.

L’area fu sgomberata rapidamente da una precedente presenza militare trasferendo il reparto che la occupava a Palmanova 13).

L’esistenza di 17 – 18 padiglioni in muratura (prima che caserma il luogo era stato ospedale, e, dopo Caporetto campo per i profughi dei paesi sul Piave) facilitò l’operazione (f. 6).

I lavori procedevano a rilento; il generale (l’estensore della memoria) si portò sul posto il 17 gennaio ’43 e descrisse minutamente i lavori fatti eseguire: “… ho provveduto a trasformare 9 dei 17 o 18 padiglioni in muratura ad uso ospedale e infermeria collegandoli fra loro con piccoli fabbricati e dotandoli di gabinetti e lavatoi moderni (capacità oltre 400 posti letto) e a sistemare, nei rimanenti 8 o 9 padiglioni, il campo di bonifica modernissimo e completo, parte delle cucine per gli internati, gli alloggi e la mensa per gli ufficiali italiani e gli uffici; a ultimare e a costruire ex novo in muratura padiglioni per visita medica, con gabinetti dentistico e batteriologico, d’isolamento per malati infettivi e contagiosi…a costruire grandi baracche in legno con pavimentazione in cemento ad uso cucine, latrine e lavatoi per internati…a montare n. 325 baracche tipo “ Russia”, n. 7 baracche tipo “Milano” n. 22 grandi tende normalizzate a doppia parete e con pavimentazione in legno, a costruire: alcuni chilometri di strade nell’interno del campo; la chiesa in muratura, il reticolato lungo circa 2 Km. e largo oltre m. 3 … grandi baracche ad uso magazzini, laboratori per sarti, calzolai, falegnami e fabbri… a migliorare l’impianto idrico aumentandone considerevolmente la portata che da circa 50.000 litri doveva salire a circa 200.000 litri giornalieri… a far trasportare al campo, con automezzi e carri ippotrainati, dalla stazione di Palmanova e dai magazzini genio d’intendenza di Villa Vicentina e di Udine, quantità favolose di materiali di ogni genere e specie …Tutti i lavori, malgrado le poche ore lavorative dovute alle intemperie della stagione e alle giornate corte, vennero effettuati in modo quasi completo, in circa un mese, tanto che, il 20 febbraio 1943 il campo venne occupato dai primi mille internati che trovarono in esso ogni possibile conforto (dove il termine potrebbe suonare come tragica ironia n.d.A.).

Nel tono trionfalistico “romano”, tipico dell’epoca si conclude che “I lavori compiuti, per la loro enorme mole e perché eseguiti con organizzazione perfetta e razionalmente, destarono l’ammirazione delle autorità superiori che definirono ‘miracolosa’ la costruzione di quel campo…” 14).

La consultazione di alcune piante ha reso possibile qualche ragguaglio tecnico: la chiesa (ultimata tardi) misurava m. 11 x 22, le baracche m. 6,5x 42, l’ambulatorio m. 6,5x 29,5; le latrine m.9×9, la cucina internati 6,5x 42. La superficie totale era di 143.322 mq (f. 7).

Una circolare del Ministero dell’Interno (Gabinetto del Ministro – Direzione generale della pubblica sicurezza), stabiliva, il 30 aprile 1943, e per decisione di Mussolini, alcuni criteri per l’internamento dei civili sloveni e affermava, tra l’altro “… il Comando Superiore Forze Armate Slovenia – Dalmazia conserverà il governo dei campi di concentramento dislocati nei territori annessi e del campo di Visco. Gli altri campi di concentramento saranno assunti dal Ministero dell’Interno…” 15).

Nel giugno del ’43 si fissava in 8.500 internati la capacità del campo di Visco (numero peraltro mai raggiunto; al massimo intorno ai 3.300); la forza effettiva militare nello stesso periodo era costituita dal ten. col. Comandante, da 1 maggiore, 5 capitani, 12 subalterni, 9 ufficiali medici, 1 ufficiale di amministrazione, 22 sottufficiali e 546 uomini di truppa 16).

Per un’idea di come si desse l’annuncio di nuovi arrivi al campo (e di quanto contasse l’uomo), ecco un fonogramma a mano, del 13 giugno 1943, che l’Intendenza della II Armata, Direzione Trasporti, inviava al Comando della II Armata, Ufficio Affari Civili: “Sono giunti oggi pomeriggio a Fiume 435 internati civili via nave da Castelnuovo di Cattaro. At ore 19.56 partiranno per ferrovia diretti at Visco Palmanova”: un lungo viaggio senza respiro.

Il gen. Umberto Giglio, in una lettera di poco precedente, aveva dato precise disposizioni sia per gli internati che per i militari del campo che dovevano essere formati espressamente per essere capaci di rispondere nelle condizioni più critiche come evasioni, rivolte, lancio di paracadutisti… “…Nessuno deve restare inoperoso – scriveva il generale – né fisicamente né mentalmente; tutti devono sapere cosa devono fare, tutti devono sentirsi controllati. Massima importanza devono avere: il servizio di guardia, l’istruzione e la manutenzione delle armi e delle munizioni, le predisposizioni ed esercitazioni di allarme…”.

Per gli internati, si doveva fare in modo che fossero il più possibile impegnati nei laboratori in modo da essere autonomi il più possibile per le maestranze necessarie al campo.

Un passaggio fa riferimento ad elementi di fondamentale importanza per capire la vita del campo e le difficoltà (par di capire) alimentari: “… Orari e genere di lavoro devono essere d’altra parte consoni alle condizioni fisiche e alla alimentazione degli internati…”. Infine alcuni consigli che si riferiscono in primis alle vittime più innocenti di simili soprusi, vere oscenità della storia: “… riunire i bambini durante varie ore del giorno in apposito recinto (proprio ‘recinto’, n. d. A.) e locale per essere intrattenuti in giochi ed istruzioni in relazione alla loro età. Qualora vi sia la possibilità di maestre fidate o possibilità di controllarle possono essere organizzate anche scuola per i ragazzi più grandi…” 17).

Ci rimangono delle testimonianze scritte sulla vita e le vicende conclusive nel campo di concentramento di Visco e, come ebbe modo di osservare la dott. Slavica Plahuta in un convegno in Montenegro, a volte esse costituirono importanti informazioni per quello stesso popolo: si vedeva l’inizio del riscatto nazionale, dato che qui si era ricostituito il battaglione Orien, protagonista dell’epica lotta di liberazione.

Sulle vicende e la vita nel campo (di cui, per sintesi, si cita solo un esempio), il saggio – testimonianza politicamente e ideologicamente più maturo è quello di Francè Brenk; era stato scritto per la guida ai campi di concentramento nella seconda guerra mondiale, edito dalla Lega dei Combattenti per la Liberazione della Repubblica della Slovenia.

Racconta le sue esperienze (dopo l’arresto a Lubiana nel ’42 nel rastrellamento di Natale, frutto della collaborazione tra OVRA, GESTAPO e polizia belogardista) prima nelle prigioni di quella città, con le consuete privazioni alimentari.

Parla di un mutamento di clima nel ’43 (iniziavano le sconfitte in Russia ).

In quell’anno una settantina tra i più sospetti vengono fatti salire su carri bestiame piombati, e attraverso Trieste giungono a Palmanova; non sapevano dove li avrebbero portati, dopo alcuni chilometri di strada polverosa.

Racconta anche di gente che insultava consueto corollario del nazionalismo più spinto nei confronti dello “ straniero” vicino o lontano che fosse (don Justulin aveva subito analogo trattamento, accompagnato da sputi e percosse, il 24 maggio 1915 sulla piazza della città stellata) (f. 8).

Avrebbe potuto essere questa colonna di internati, incatenati con gli schiavettoni, a spuntare dall’ultima curva venendo da Palmanova e ad impressionare dolorosamente un ragazzo di 15 anni che li vide. Ma potevano essere anche altri, tanto la scena ebbe a ripetersi diverse volte 18).

Brenk continua: dopo lo stradone li accolse uno spiazzo circondato da due ordini di filo spinato, torrette di guardia.

Consueta liturgia per gli internati: rasati, spogliati, perquisiti, col sequestro di ogni effetto personale, compresi gli accendini. Si ritrovano tra persone pallide, malferme sulle gambe, che trascinavano appena le loro gambe gonfie per le stradine.

Nel gruppo dei primi trecento arrivati, c’erano prigionieri che venivano da Rab (Arbe), senza forze. A un certo punto della memoria viene fuori un’immagine drammatica: gli Italiani non volevano sporcarsi le mani uccidendo molte persone direttamente, però abbandonavano al destino gli internati di Rab e di Visco.

Chi scrive ha piena contezza dell’inferno di Arbe (Rab) dalla lettura di un diario inedito di un ufficiale italiano: più di mille morti, in gran parte per fame.

Subito – continua Brenk – inizia l’organizzazione, facilitata dal fatto che molti si conoscevano. Viene nominato un comandante di campo – Martin Menc – mentre lui, Brenk, è commissario politico; come portavoce viene scelto Boris Trampus.

Inizia un lavoro organizzativo, formativo e di preparazione militare. Si costituiscono gruppi di 10 persone che, al momento opportuno avrebbero dovuto far evacuare il campo in condizioni di sicurezza e cercare il modo di aggregarsi ai partigiani della Valle del Vipacco o sotto il Kanin.

Il primo problema era quello di conservare la salute e salvare quelli che erano costretti al lavoro; per il momento non arrivavano pacchi di generi alimentari da parenti e bisognava dividere il cibo.

I cucinieri dovevano mescolare bene nelle marmitte in modo da distribuire equamente il condimento (f. 9). Si faceva ginnastica all’aperto prima di colazione; tutti la facevano, eccetto gli anziani, per una mezzora.

Si controllava severamente l’igiene e nessuno a Visco ebbe pulci.

Questo secondo il suo racconto; altre fonti segnalano casi di tifo petecchiale.

Venne costituita anche una squadra di calcio e si giocava con un pallone di stracci.

Il campo di concentramento diventava sempre più affollato, erano separate le donne con bambini e le mogli con i mariti; le recinzioni erano con filo spinato.

La sera accanto al recinto si esibiva anche il coro “Cosov”. Nell’ambiente si lavorava per una comune adesione al Fronte di Liberazione e in questo ambito viene segnalato l’improduttivo risultato di incontro con elementi vicini a Mihajlovich.

Nella primavera del ’43 arrivarono più di un centinaio di ex combattenti del battaglione Orien (dal Monte Orien a nord-ovest delle Bocche di Cattaro n. d. A.).

Erano perlopiù ufficiali che avevano combattuto sopra le Bocche di Cattaro nel ‘41-’42; quando la loro formazione si era sciolta avevano cercato rifugio nelle cittadine lungo la costa, catturati, erano stati rinchiusi nelle prigioni di Mamola che erano tra le peggiori.

Secondo Brenk ci sarebbero stati dei morti perché avevano mangiato, per la tanta fame, delle radici tossiche.

I morti effettivamente ci furono, sette in marzo (un altro gruppo nutrito morì nei mesi di luglio- agosto).

Dai certificati di morte pare di capire che erano persone defedate, prive ormai di difese, indebolite dagli stenti e ciò concorda con quanto ha scritto recentemente Božidar Jezernik che parla dei primi arrivi il 20 febbraio, ed erano uomini deperiti provenienti da Rab, da Gonars, da Treviso (fino al 14 marzo, scrive Jezernik, a Visco c’erano già 1200 uomini e 200 donne) 19).

Comunque sia, vennero stabiliti – racconta Brenk – un servizio notturno di vigilanza per ogni tenda per questa o per altre evenienze.

Che ci fosse fame emerge da una testimonianza della guardia campestre di Visco, che raccontò di sentire ancora nell’orecchio il rodìo degli internati che mangiavano pannocchie in un appezzamento di mais adiacente il campo 20).

Quando ancora non arrivavano i pacchi da parenti o da organizzazioni, è sempre Brenk a parlare, la situazione si faceva pesante, le gambe si gonfiavano, il cuore li tradiva e c’erano morti (i pacchi arrivarono in un secondo tempo per una grande solidarietà, propiziata capillarmente dalle parrocchie slovene, da organizzazioni come quelle delle figlie di Maria, da un comitato presso la Curia di Gorizia, coordinato da mons. Mirko Brumat, n. d. A.).

Le casse per i morti venivano costruite nei laboratori di falegnameria del campo e i membri del Fronte di Liberazione sui lati della cassa fissavano tre stelle rosse.

Deve essere stato straziante un funerale in quel contesto umano, quando per i morti, lungo il viale veniva intonato un canto sloveno che recitava “… come vittime, siete morti nella lotta per noi…”. C’era terrore per la mancanza di cibo, mitigata dai pacchi che incominciavano ad arrivare per pochi fortunati di Lubiana durante l’estate.

I pacchi per decisione dei capi della organizzazione venivano così spartiti: mezzo andava per i lavoratori, un quarto era tenuto di riserva per quando si sarebbero uniti con i partigiani e un quarto andava al destinatario; salvo quelli di Mihajlovich, tutti a Visco rispettarono l’accordo.

La giornata dell’internato era movimentata anche dalla costante paura: gli Italiani portavano alcuni a Lubiana o c’erano minacce…

C’erano numerosi intellettuali, medici che provvedevano per la salute, letterati.

Le lunghe giornate non passavano inattive: alcuni disegnavano – e c’è stata perfino una mostra – c’erano corsi di inglese, altri leggevamo la storia slovena di Milko Kos, altri ancora incidevano e intagliavano.

Gli attivisti del Fronte di Liberazione coronarono il loro lavoro con la pubblicazione del giornale Višek – Visco, l’otto marzo ’43, era una sola copia scritta dal tecnico Marjan Pengov ed altri; c’era un comunicato con le notizie sulla guerra che erano riusciti a procurarsi, e sulla valutazione degli errori nella attività del campo (f. 10).

Non mancava perfino la pagina umoristica di Maks Jeza e due croati.

Il primo numero è custodito nel Museo della rivoluzione popolare di Lubiana; il secondo, con un messaggio pasquale come editoriale, fu trovato dagli Italiani che si sentivano persi.

Con una perquisizione accurata, sotto il letto di Pengov vennero trovati inchiostro e pennelli.

Gli Italiani erano sempre più inquieti ancora con filo spinato avevano diviso il campo in settori più piccoli.

Convinti che ricevessero informazioni dall’esterno perquisivano dappertutto.

Come si procuravano le notizie? Alcuni di loro andavano in amministrazione, in cucina, nei laboratori, ascoltavano la radio, e si rendevano conto di ciò che accadeva. Brenk pensa che, nella storia dei campi di concentramento, quello di Visco sia l’unico caso di pubblicazione di giornali, se si eccettua “Novice” di Gonars e Monigo (Treviso) (f. 11).

Prima dell’otto settembre uno di loro fuggì per verificare quale fosse il modo più sicuro di aggregarsi ai partigiani. L’esodo di massa fu il secondo momento del Fronte di Liberazione.

A migliaia premettero sui portoni centrali; gli Italiani fuggirono (anche le sentinelle che stavano sulle torrette).

Uscì un primo gruppo di dieci persone armate con le armi che erano depositate nel campo, in seguito defluirono alcune centinaia di donne e bambini; infine il grosso con plotoni armati che controllavano la colonna di 3 – 4.000 internati, lunga qualche chilometro, che si apprestava a raggiungere la Valle del Vipacco.

Le case lungo la strada avevano le imposte chiuse; davanti alcune c’erano dei mastelli e delle brocche di acqua.

Le donne più povere e malate o con figli si erano rifugiate in case lungo il cammino.

Alcuni si sbandarono e tre vennero uccisi dai Tedeschi a Gradisca.

Guadarono l’Isonzo (per fortuna il livello delle acque era basso) e aldilà del fiume erano attesi da guide. Arrivarono nella Valle del Vipacco in circa 2.000 attraverso Opacchiasella.

Brenk poi si diffonde sul destino dei diversi gruppi di internati, e racconta di aver partecipato alle battaglie sul fronte di Gorizia sino all’offensiva tedesca di ottobre.

Prima di essa, per il battaglione Orien venne l’ordine di Tito perché tornassero quanto prima in Bosnia; per un tratto di “strada” fu Brenk ad accompagnarli, poi furono rilevati da esperti dei luoghi.

Concludendo, l’Autore si sofferma sul luogo delle sue sofferenze in cui era tornato, notando la costruzione di nuove case; difatti Borgo Piave, come centro abitato, ha preso piede solo nel dopoguerra con una trentina di abitazioni.

Alcune cronache parrocchiali, come si è accennato dianzi, raccontano dell’esodo: così a Versa, dove don Michele Grusovin annota: “…a rendere più dolorose le tragiche giornate si aggiunge il passaggio…delle migliaia di Iugoslavi internati nei campi di Visco e Gonars.

Sono uomini, donne e bambini che hanno sofferto la fame, torture e tutti i dolori fisici e morali, ed ora ritornano alle loro case saccheggiate o bruciate portando in mano o sulle spalle tutto il loro avere e in cuore un gran odio per l’Italia.

La nostra buona gente s’intenerisce alla vista del ‘dolore’ che passa e cerca di lenirlo offrendo generosamente pane ed altro.

È stata una dolorosa trasmigrazione di popoli…” (f. 12).

Analoghe note nelle cronache delle parrocchie di Romans d’Isonzo, Bruma e Ronchi dei Legionari, dove il passaggio di tanta umanità dolente avveniva in due direzioni, anche con migliaia di soldati italiani allo sbando.

I morti del campo di Visco furono 25, dei quali 3 furono sepolti a Palmanova, mai riesumati e riuniti a quelli che riposano in Gonars (f. 13).

Chi scrive ha fatto una piccola ricerca specifica per questi tre: Francesco Hočevar, nato nel 1907 a Mali Ločnik (Lubiana), morto il 14 aprile; Francesca Mihevec, 45 anni, Matteo Golob di Stažišče (Lubiana), perché abbiano la dignità che si merita ogni persona umana, tantopiù se appartiene ai perseguitati per la giustizia .

Senza rischiare di essere patetici, in tanta disumanità generalizzata, generata da imperdonabile odio di nazioni che volevano affermare sé stesse negando le altre, in nomi di folli, pretese superiorità, vanno citate figure di persone che si distinsero con un sentire diverso (casi conosciuti che non escludono la esistenza di altri), è il caso del capitano medico Giuseppe Castelbarco Albani, pediatra nel campo, che procurava medicine ai suoi piccoli pazienti.

Tra le carte di mons. Brumat, c’è una lettera capace di parlare con immediatezza anche oggi, a più di cinquant’anni da quei momenti, e di spiegare come la sorte sia stata aiutata a non colpire di più i bambini, già di per sé stesso offesi nell’umanità dall’infamia dell’internamento.

È indirizzata alla Curia Arcivescovile di Gorizia e scritta con una nitida e regolare grafia dal dott. Giuseppe Castelbarco Albani “specialista malattia dei bambini”, come avverte la carta intestata (f. 14).

È del 7 aprile 1943; non ha bisogno di alcun commento: “… In qualità di medico addetto al 4° settore del Campo di Concentramento Internati Civili di Visco: reparto donne e bambini, mi rendo interprete del sentimento di viva gratitudine che il reparto stesso à manifestato nei riguardi della Curia Arcivescovile alla quale ò l’onore di rivolgermi per il nobile dono del quantitativo di miele che anime buone del Goriziano ànno voluto farci giungere.

La situazione alimentare del settore pel momento, in quanto al fabbisogno latte è abbastanza buona: si è potuto avere 50 (cinquanta litri) di latte fresco giornaliero: mancano farine alimentari per bambini e sovratutto Mellin pel divezzamento e per correggere nei lattanti artificialmente ai primi mesi. Non abbiamo nessuna dotazione, ed il sottoscritto stesso à provveduto personalmente ad acquistare qualche flacone di Mellin facendo piccola opera di beneficienza.

Vi sono tante altre piccole cose che potrebbero essere utili, e le anime buone del Goriziano, le mamme sopratutte potranno più di me, pensando ai loro bambini, comprendere quanto di bene si può fare in tanto dure contingenze per le piccole innocenti creature altrui…” 21).

Che il ten. Castelbarco Albani portasse di sua iniziativa medicine agli ammalati del campo è testimoniato dalla prof. Alietta Zecchini (il medico dormiva presso la sua famiglia): racconta anche di aver saputo della sua morte avvenuta su di un treno mitragliato dagli aerei fra Milano e Varese.

Sempre da questa fonte si capisce che la solidarietà dei connazionali nei confronti degli internati deve essere stata intensa anche sul piano quantitativo: Ugo Zecchini, maestro di posta, andava a svincolare mensilmente in ferrovia carri merci con 2.000 – 3.000 pacchi; anche la posta arrivava in grande quantità, tanto che presso l’ufficio di Visco furono distaccati due militari per aiutare nello smistamento.

C’era poi, un anonimo ufficiale medico che dimostrava affetto per i bambini: lo ricorda la testimonianza di Slavenka Ujdur.

Certamente, la sofferenza degli internati fu stimolo a prese di posizione anche all’interno del mondo militare italiano; nella mia piccola indagine, ho constatato che il col. Eugenio Morra, che si occupava dei campi di internamento, poi divenne partigiano della Osoppo (“Ottavio”) e fu deportato a Dachau, così come il ten. Federico Esposito, responsabile amministrativo del campo di Visco; anche lui partigiano e dietro il filo spinato a Dachau.

Di piccoli gesti di solidarietà furono protagonisti tanti altri, conosciuti e non conosciuti, come il muratore Renato Zuttion di Joannis (Udine) (f. 14 bis), che portava qualche pezzo di pane e di sapone agli internati, quando lavorava alla costruzione della chiesa nel campo, e poi anch’egli conobbe il campo di concentramento per militari in Germania a Öschersleben in Germania; o la famiglia Tortolo di Palmanova, che coltivava terreni adiacenti al campo; la madre di famiglia lanciava al di là della rete verdura di stagione.

Se vogliamo, ci fu anche la solidarietà spirituale, quella sentita all’interno, quasi silenziosa, eppure eloquente: che ci fosse qualcosa che non andava nel campo sapevano le nonne (una intesa in senso non strettamente parentale), che dissero a Ezio Urizzi, fanciullo vischese di nove anni, di pregare per quei “frus”, bambini 22).

Per la grande storia, cui solo una storiografia, a torto chiamata minore, accenna, questi sono particolari trascurabili, ma forse questi piccoli gesti servirono ad attenuare la sfiducia nel prossimo di quel fiume di umanità dolente che, dopo l’otto settembre, si mise in marcia per raggiungere le proprie terre, e ricominciare.

Recentemente a Visco è venuto il dott. Milan Škrlj di Lubiana: anche lui provò la solita liturgia: arresto, casa bruciata, internamento 23).

Aveva 7 anni, quando fu internato; provò Monigo e Visco, come il fratello Ivan di 5, la sorella Ana di 17, l’altra sorella, Mima, di 18, la madre Maria di 37 anni; un altro suo fratello, Jože sedicenne, provò Rab e Visco; suo padre, Ivan, 42 anni, Rab e Gonars (f. 15).

Milan, che il 22 marzo aveva compiuto 8 anni nel campo di Monigo, arriva a Visco con la mamma Maria, il fratello Ivan di 6 (li compie il 29 giugno a San Pietro, patrono di Visco), le sorelle di 17 e 18.

Li raggiunge il fratello Jože; veniva da Arbe e non occorre dire come si presentò.

Saranno liberati dopo il 25 luglio; il padre dopo l’8 settembre. Anche sul foglio dei bambini la monotona ripetitività della burocrazia scrive che il “luogo di cattura”

è stato Begunje. Ecco Una parte della sua testimonianza:

“…A Monigo rimenemmo per circa sei mesi. Poi, fummo trasferiti in un altro campo di concentramento, a Visco, che dista qualche chilometro da Palmanova, in Friuli.

Non lontano da questa bella cittadina c’è Gonars, dove anche lì c’era il noto campo di concentramento per Sloveni.

A Visco le famiglie potevano stare unite, non c’era cioè la divisione tra uomini e donne.

Il campo era stato costruito su terreni in precedenza coltivati a grano.

Era formato da semplici baracche in legno, un po’ sollevate dal terreno, sotto i cui pavimenti avevano il loro rifugio anche i ratti, che di sera, durante la cena, passavano disinvoltamente da una baracca all’altra.

Negli spazi liberi non calpestati e tra il filo spinato il grano continuava a crescere.

Il campo era chiuso da filo spinato, ad di là del quale vi erano le torrette di guardia con i riflettori. Al suo centro una doppia linea di filo spinato divideva il settore degli uomini da quello delle famiglie.

Un profondo fosso, attraversato da un ponticello, percorreva entrambi i settori del campo.

Al di là di esso vi era un edificio con acqua corrente e servizi igienici.

Nella zona delle baracche vi era anche una costruzione, penso in muratura, che fungeva da cucina. Vicino al ponticello, in una baracca isolata, esternamente simile alle altre, si trovavano l’amministrazione e l’ufficio del colonnello, comandante del campo.

Quando eravamo già da alcuni mesi nel campo e il frumento lì attorno iniziava a maturare e noi bambini andavamo a strappare le spighe per mangiarne i chicchi, si diffuse la voce che nel settore del campo riservato agli uomini era giunto un gruppo di internati proveniente da Rab.

Già il solo nome Rab evocava il terribile campo di concentramento italiano, noto per le pesanti condizioni di vita, per la scarsità e la qualità scadente del cibo, in cui gli internati erano costretti a dormire nelle tende e molti vi erano deceduti.

Ancora nel dopoguerra e per molto tempo Rab continuò a suscitare ricordi assai tristi.

In questa splendida isola dell’Adriatico vennero internati nostro padre e mio fratello Jože, allora sedicenne.

Un bel giorno scorgemmo Jože nell’altro settore vicino al filo spinato.

Era solo pelle e ossa.

Nel vederlo scoppiammo a piangere.

La mamma, attraverso un conoscente, gli fece avere quel po’ di pane biscottato rimastoci e ricevuto con i pacchi. Inoltre, fece in modo che Jože potesse passare nel nostro settore e stare con noi.

Ora la nostra famiglia, pur mancando il papà, era di nuovo unita.

Un giorno il capo cuciniere si mise a scegliere alcuni giovani che lo aiutassero in cucina, che trasportassero le marmitte del rancio, lavassero le stoviglie, ecc.

Naturalmente la mamma inserì anche Jože nel gruppo.

In cucina, infatti, Jože avrebbe avuto modo di procurarsi del cibo, soprattutto del pane, che ogni giorno, dopo il lavoro, faceva avere anche a noi.

Non impiegò molto tempo per rimettersi e crescere di peso.

Quasi al centro tra i due settori del campo c’erano altri due edifici.

Il primo veniva chiamato preventorio, il secondo “fermeria”.

In “fermeria”, una sorta di infermeria per malati gravi, fui ricoverato anch’io per infiammazione della pleura.

Ricordo che ogni giorno mi facevano un’iniezione, ma soprattutto che ogni giorno attorno a me moriva qualche adulto.

Una volta guarito, io e Ivan, il più giovane dei miei fratelli, fummo trasferiti nel preventorio, una specie di convalescenziario.

Penso che la sera andassimo a dormire nella baracca di nostra madre.

A Visco avevamo anche una certa vita sociale.

Di sera ci riunivamo in gruppi e cantavamo canti partigiani.

I nostri canti preferiti erano “Nabrusimo kose že klas dozoreva” e l’italiano “Avanti popolo”. Qualcuno compose una canzone beffarda sulla “belagarda”, il cui ritornello faceva “vzel te bo hudič” (che il diavolo ti porti), che noi cantavamo volentieri con la sensazione di vendicarci di coloro che erano stati la causa del nostro internamento.

Fra le famiglie internate c’era anche la numerosa famiglia Bambič di Mala Račna nella Dolenska (Bassa Carniola).

Il padre sapeva disegnare bene.

Particolarmente belli erano i disegni delle baracche e delle torrette di guardia. Anche noi ne avevamo uno, andato perso nel dopoguerra durante un trasloco.

Rimanemmo a Visco fino alla capitolazione dell’Italia.

Alla caduta del fascismo e rispettivamente al colpo di stato compiuto dal re e all’arresto di Mussolini le madri con figli piccoli erano già state liberate. Anche nostra madre, assieme a me e a mio fratello Ivan, ebbe allora la libertà.

Dalla “Scheda informativa individuale”, che trovai nello “Zgodovinski arhiv Slovenije” (Archivio storico della Slovenia), possiamo sapere esattamente per quanto tempo rimanemmo in entrambi i campi di concentramento.

Vi è scritto: il 17. 8. 1942 internato nel campo di Monigo; 28 Mar. 1943 A Visco; 20 – 8 – 43 All’XI corpo d’Armata per success. liberazione, No foglio 14498/Iic – 4 del 5 – 8 – 43.

Assieme alla mamma, io e mio fratello lasciammo il campo per tornare a casa in agosto, mentre Ana, Mima e Jože vi rimasero fino alla capitolazione dell’Italia, avvenuta uno o due mesi più tardi.
Trovammo ospitalità presso la casa dello zio, perché la nostra era stata data alle fiamme.
Ci raggiunse anche nostro padre.
Ricordo molto bene il ritorno di nostro padre dall’internamento.
Eravamo alloggiati nella casa dei nonni a Zibovnik.
Era notte.
Dormivo nel letto con la mamma.
Quando mi svegliai era ancora buio.
Allora la mamma mi sussurrò:
– È arrivato il papà.
– Dov’è?
– Qui, nel letto.
Con uno scatto fui da lui e iniziai ad abbracciarlo.
La guerra continuò a infuriare…”

Milan, che aveva otto anni, si era accorto che anche a Visco, tra le baracche, dove scorrazzavano i ratti, prima il terreno aveva avuto un’altra funzione, perché aveva visto ricrescere le spighe del grano…”.

Note:

1. La chiesa è stata demolita nel 1976 (secondo altri nel 1991) dall’amministrazione militare.Si trovava all’interno della caserma “Luigi Sbaiz”.
Eretta nel 1943 per il servizio religioso agli internati, venne restaurata nel 1952 e dedicata a san Martino.
Le fondamenta dei muri perimetrali sono emerse durante recenti lavori di pulizia dell’area. Cfr. le corrispondenze da Visco sul quotidiano “Il Gazzettino”, 15, 17, 20, 21 aprile 1952.
2) I versi di Moreno Venchiarutti erano stati segnalati a chi scrive dal m.o Antonio Faleschini († 1976) di Osoppo, che, al tempo del terremoto, fu ospitato dalla famiglia Venchiarutti nel prefabbricato che costituiva l’abitazione di allora.
3) Si trattava del libro, opera di chi scrive, edito dal Comune di Visco, che, in alcuni capitoli, trattava, per la prima volta, del campo di internamento: cfr. F. TASSIN, Sul Confine dell’Impero, Visco 1998, pp. 62 – 87, 101 – 102 .
4) Sul rapporto con la popolazione slovena, Fulvio Salimbeni, nella introduzione al volume La cultura slovena nel Litorale, scrisse, riguardo la ripresa di contatti nell’area di frontiera del Goriziano: “… In questo nostro secolo straziato dal morbo del nazionalismo più dissennato … alle antiche contrapposizioni frontali si sostituisce il dialogo, alle rigide chiusure imperversanti sino a non troppi anni fa subentrano iniziative miranti a favorire la reciproca collaborazione economica così come culturale, facendo cadere quelle barriere politiche artatamente rizzate nel cuore di una terra che è stata fino a un’epoca neppure tanto remota patria comune di favelle diverse, di fedi religiose le più varie, di culture ognuna con le sue specifiche peculiarità, senza che per questo si avvertisse alcuna anomalia o alterità in una tale situazione, emblematica di quella che era la più generale condizione globale dell’impero asburgico …”. Cfr. F. SALIMBENI, Introduzione, in La cultura slovena nel Litorale, Gorizia 1988, p. VI.
Sul concetto di multietnicità di queste terre, come “esito della storia, o come dono di Dio, e come convergenza di popoli che avevano la fortuna di arricchirsi reciprocamente di esperienze, umanità e sapienza, cfr. C. MACOR, Friulani di confine, in Cultura di confine, Gorizia 1996, pp. 121 – 122.
Un bell’esempio di quella cultura, arricchita dalle diversità, è il sonetto scritto dal prof. Andrea Marussig per l’intronizzazione dell’arcivescovo di Gorizia Luigi Zorn, tanto più che fu composto non solo in friulano, ma anche in sloveno e tedesco; cfr. M. JUSTULIN, G. MEIZLIK, G. PARMEGGIANI, Dediche poetiche a sacerdoti della arcidiocesi goriziana, Gorizia 1913, pp. 53 – 54.
Il flun Vipac l’è placid per natura, Mi par un paradis che so vallada, – Dal Nanos stess la chiossa l’è provada, Che l’onda so – di pas l’è la figura. Dal maestos sloven Triglau sussura L’Isunz potent – cirint fra crez la strada, E – ver tesàur di fuarza ben stimada – Parcòrr del biel Friuli la planura. L’accord del fuart cul placid l’è magnific; E ben, l’Isunz si uniss cul flun pacific – Unid furlans e slavs in ches contradis. Il To Vipau T’ià battiad – Lustrissim,L’Isunz T’ià fatt devot, zelant, dottissim: Pastor clement e fuart saras ai fradis.
Sullo stravolgimento della convivenza e, più in generale, sul declinare da popolo a “minoranza”, con tutte le sue tragiche conseguenze, cfr. V. PERI, Prefazione e Introduzione, in V. PERI [a cura di], Le minoranze nella Mitteleuropa (1900 – 1945) identità e confronti, Gorizia 1991, pp. 7 – 14, 15 – 25.
F. TASSIN, Per la cultura e la storia in una terra di incontri, “Nuova Iniziativa Isontina”, 5 (1992), pp. 20 – 24.
Sulle ingiustizie e i soprusi perpetrati dalla occupazione italiana alle popolazioni italiane e slovene e perfino a irredentisti italiani, cfr. C. MEDEOT, Storie di preti isontini internati nel 1915, Gorizia 1969; F. TASSIN, Introduzione, in G. MILOCCO, L’altra storia, Trieste 1996 (che tratta interamente dell’argomento), pp. 3 – 4; G. MILOCCO, “Fratelli d’Italia” Gli internamenti degli italiani nelle “terre liberate” durante la grande guerra, Udine 2002, prefazione di P. MALNI, che pure ha trattato il problema degli internamenti. Questi lavori vennero alla luce molto tardi rispetto ai fatti, perché ci fu una sorta di damnatio memoriae di uomini e fatti della Contea di Gorizia.
5) Così, ad esempio, mons. Luigi Faidutti ,deputato al Parlamento di Vienna e capitano provinciale di Gorizia; cfr. P. CAUCIG, Attività sociale e politica di Luigi Faidutti (1861 – 1931), Udine 1977.
6) Sugli interventi dell’on. Cosattini, cfr. P. ALATRI, Giovanni Cosattini (1878-1954) una vita per il Socialismo e la Libertà, Udine 1994, pp. 93-96.75); sulla snazionalizzazione di Friulani e Sloveni, cfr. C. MACOR, Friulani di confine…, cit., e A. ARA, Scuola e minoranze nazionali nella Venezia Giulia tra le due guerre mondiali, in V. PERI (a cura di), Le “minoranze”, cit. pp. 209 – 226.
7) Ambedue obbedirono alla Santa Sede rassegnando le dimissioni. Ancora prima, per motivi analoghi, si era dimesso il vescovo di Trieste, mons. Angelo Bartolomasi, già vescovo castrense durante la prima guerra mondiale.La resistenza nei confronti della snazionalizzazione non ci fu da parte friulana; cfr. V. PERI, Note sulla formazione dell’identità culturale friulana, “Studi Goriziani” 63 (1986), p. 28.
8) Giulio Montenero riferisce la cosa come “opinione popolare”, ma le sembianze del diavolo sembrano essere inequivocabili, o comunque culturalmente percepite come identiche; cfr. AA. VV. Arte e natura a colloquio Umetnost in narava v dvogovoru, Trieste 1999, p. 139.
9) Archivio Parrocchiale di Visco, M. JUSTULIN, Memorie della parrocchia decanale di Visco, ms. , pp. 10 – 11. Nelle stesse pagine, il decano osserva ancora “… Col fanatismo non cancelliamo la storia…”.
10) Per Davide Rodogno, ci si riferisce al saggio La repressione nei territori occupati dall’Italia fascista tra il 1940 e il 1943,
“Qualestoria” 1 (2002), pp. 45 – 83.
Per le testimonianze di questo intellettuale sloveno, cfr. la sua lettera all’Autore, datata Lubiana, 10 maggio 2002.
Marijan Tršar è nato nel 1922 a Dolenjske Toplice e vive a Lubiana. Ha studiato storia dell’arte all’Università di Lubiana e ha proseguito gli studi all’Accademia di Lubiana dov’è stato anche professore.
Pittore, molto attivo nel campo della grafica, critico d’arte, traduttore e illustratore di libri ha esposto nelle più importanti gallerie del mondo.
Delle sue esperienze di internato parlano anche le sue opere. Su di lui, cfr. , tra l’altro, M. TRŠAR, Grafike 1953 – 1996 Slike 1994 – 1995, Lubiana 1996, e M. TRŠAR, Slike iz cikla Holokaust, Lubiana 2002.
11) Su insegnanti e sacerdoti sloveni nei paesi della archidiocesi di Gorizia nell’Ottocento, cfr. F. TASSIN, L’istruzione popolare e gli Asburgo nella Contea di Gorizia e Gradisca (1774 – 1855). Gorizia 2000.
12) F. BRENK, Spomin na Višek-Visco [Ricordo su Višek-Visco], “Borec”, Ljubljana, 2 (80), p. 111.La constatazione di Brenk è stata trasformata dall’Autore in domanda indiretta.
La ripresa di contatti con l’Est europeo a Gorizia (e non solo a Gorizia) deve molto a istituzioni come il Centro Studi “Sen. Antonio Rizzatti”, la rivista “Iniziativa Isontina”, l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, l’Istituto di Sociologia Internazionale e, più recentemente, l’Istituto di Storia Sociale e Religiosa e il Corso di Laurea in Scienze Diplomatiche e Internazionali con sede a Gorizia. Per questi aspetti cfr. F. TASSIN, Per la cultura e la storia…, cit.
13) Erano uomini e mezzi del III Magazzino di veterinaria e mascalcìa distaccati nel 1940 dall’VIII Reggimento di artiglieria di Verona e il IV parco quadrupedi, distaccato dal I Reggimento di Artiglieria di Foligno, in supporto alle successive operazioni in Jugoslavia. Test. All’Autore del sergente maggiore Giovanni Farinelli (Valeggio sul Mincio).
14) Il documento è stato fornito all’Autore per la gentilezza della dottoressa Nataša Nemec del Goriškj Muzei di Nova Gorica; Archivio Storico Diplomatico Ministero degli Affari Esteri Roma, A(ffari) P(olitici) 1931 – 45, Jugoslavia, b. 148, documento 0146, allegato n. 19 BIS. Roma 10 luglio 1945; si tratta della memoria difensiva del gen. di brigata Arnaldo Rocca. Dal f. 24 al f. 26, descrive i lavori di trasformazione per il campo di Visco.
15) Per la circolare citata, cfr. Archivio dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine, b. Campi di concentramento italiani per civili sloveni, fasc. Internati sloveni – documenti.
16) Per la forza del campo, cfr. Vojnoistorijski Institut JNA Arhiv Neorijateliskih Jedinica, Lettera del Comando della II Armata, 7 giugno 1943; il documento mi è stato segnalato dalla dott.ssa Slavica Plahuta.
17) Per questi due documenti, cfr. Ufficio Storico dello Stato Maggiore del Regio Esercito, Roma, fonogramma PM 10 del 9 luglio 1943. I documenti sono stati forniti in copia dalla gentilezza del prof. Spartaco Capogreco (Rende, Reggio Calabria).
Ai campi di concentramento di Gonars e di Visco, si riferisce un saggio di S. PLAHUTA, La partecipazione degli ex internati nei campi italiani alla lotta di liberazione nazionale nel Litorale Sloveno, “Qualestoria”, 3 (1984), pp. 75 – 80, traduzione di L. FERRARI.
La dottoressa Slavica Plahuta, che è stata a lungo direttrice del Goriški Muzej, è autrige di numerosi e importanti saggi sull’argomento e, recentissimamente del volume Slovenski in črnogorski interniranci in narodnoovobodilni boj na Goriškem, Nova Gorica 2004, pp. 212.
La dottoressa Plahuta, la figlia Marta e il dott. Gianni Toplikar hanno tradotto per chi scrive numerosi saggi e documenti.
Diversi accenni sui campi di Gonars e di Visco si trovano in alcune relazioni tenute nel 1985 al III convegno I cattolici isontini nel XX secolo (Gorizia, 19 – 20 dicembre 1985) e confluite nel volume con il medesimo titolo, uscito, sempre a Gorizia nel 1987.
In particolare, ne parlarono la testimonianza di Zora Piščanc (pp. 437 – 439); le relazioni di Donato Biasiol, pp. 340 – 341; Luigi Tavano, p. 191; Celso Macor, pp. 212 – 213.
Altri studi che riguardano i campi, sono il volume di N. PAHOR – VERRI, Oltre il filo storia del campo di internamento di Gonars 1941 – 1943, i saggi di M. PUPPINI, Gli internati di Fossalon, “Il Territorio” 22 (1988), pp. 34 – 81; di A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia e le persecuzioni antislave, “Storia contemporanea in Friuli”, 27 (1996); accenni anche nel saggio di F. TASSIN, La presenza caritativa della Chiesa nel Goriziano, in F. M. DOLINAR e L. TAVANO [a cura di], Chiesa e società nel Goriziano fra guerra e movimento di liberazione il volume, Cerkev in družba na Goriškem ter njih odnos do vojne in osvobodilnih gibanj, Gorizia 1997 (ma il convegno è del 1996), pp. 224 – 227; l’opera più recente è il corposo volume di A. KERSEVAN; si omettono gli estremi delle opere di Spartaco Capogreco, Tone Ferenc e Božidar Jezernik, perché conosciutissime e citatissime.
18) Test. resa all’Autore dal dott. Giuseppe Giannarini (Udine), che allora abitava nella ex dogana austriaca di Visco ed aveva 15 anni.
19) Per gli atti di morte, cfr. Archivio Parrocchiale di Visco, Atti di morte per il cappellano Frasnelli Beniamino, ms. ; si tratta di un registro che contiene tutti gli atti di morte.
20) Test. resa all’Autore da Clemente Simeon (Visco) allora guardia campestre. Probabilmente, gli internati raggiungevano il campo di mais attraverso il collettore sotterraneo delle acque della caserma, che ha una sezione quasi ad altezza d’uomo e che veniva usato fino a tempi recentissimi da militari o sottufficiali della caserma per libere uscite fuori ordinanza: test. resa all’Autore dal cav. Nicola Ciavarella, già sottufficiale in servizio alla caserma “Sbaiz”.
21) Copia della lettera del dott. Castelbarco Albani (l’originale si trovava tra le carte di mons. Mirko Brumat) è stata fornita a chi scrive dalla dott. Nadia Pahor Verri; la ulteriori notizie sul medico e sulla posta sono frutto della testimonianza resa all’Autore della prof. Alietta Zecchini e del dott. Antonino Zecchini di Udine, ma a quel tempo abitanti a Visco.
22) Per Renato Zuttion, si tratta di una testimonianza all’Autore dello stesso.La testimonianza sulla famiglia Tortolo è di Lucia Tortolo di Palmanova, figlia, presente ai fatti.
La testimonianza di Ezio Urizzi (Visco) è stata resa all’Autore
23) Test. scritta del dott. Milan Škrlj all’Autore; traduzione dallo sloveno del dott. Gianni Toplikar.
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